RSPP: sentenza n. 16562 del 29 aprile 2022

Responsabilità del datore di lavoro-Rspp

SENTENZA sul ricorso proposto da: NERESINI MASSIMO COSTANTINO nato a VALDAGNO il 28/08/1956 avverso la sentenza del 18/06/2018 della CORTE APPELLO di VENEZIA visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere BRUNO GIORDANO;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore GIUSEPPINA CASELLA
che ha concluso chiedendo il rigetto.


1. La Corte di appello di Venezia in data 18/06/2018 confermava la sentenza di condanna alla pena di anni uno di reclusione, con la sospensione condizionale della pena e il beneficio della non menzione, emessa dal Tribunale di Vicenza in data 6/2/2013 nei confronti di Massimo Costantino Neresini per il delitto di omicidio colposo aggravato previsto dall’art. 589 cod. pen. per avere nella qualità di legale rappresentante della Sicit 2000 S.p.A., di direttore di stabilimento nonché di responsabile del servizio di prevenzione e protezione nella medesima società, per colpa generica e per colpa specifica dovuta alla violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni, cagionato la morte dell’operaio /v Amoo John, incaricato di effettuare la manutenzione e la pulizia di un macchinario mescolatore a pale, a causa dello schiacciamento del cranio nella coclea di tale impianto. Evento che si verificava in data 16/11/2006.

2. Avverso tale sentenza l’imputato ricorre con un primo motivo prospettando l’erronea applicazione della legge penale in relazione agli artt. 40, comma 2, 43, comma 1 e 3 cod. pen. nonché artt. 2, comma 1, d.lgs 19 settembre 1994, n. 626 e 2, comma 2, d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, contestando la qualifica di datore di lavoro attribuita all’imputato nelle sentenze, diversamente da quanto si può evincere dalla delibera del consiglio di amministrazione del 17/6/2003 che invece attribuisce allo stesso solo compiti di ordinaria amministrazione.

3. Con un secondo motivo di ricorso, si lamenta che la Corte d’appello travisando il primo motivo di gravame ha ritenuto di escludere la sussistenza di una delega di funzioni da parte dell’imputato a favore dell’ing. Carnara, motivo che sostanzialmente non sarebbe stato esaminato dalla Corte.

4. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta l’erronea applicazione della legge penale poiché la Corte di appello ha ritenuto la responsabilità dell’imputato anche per il ruolo causale del mancato aggiornamento del documento di valutazione dei rischi; obbligo che, in assenza della qualifica di datore di lavoro, non sarebbe spettato all’imputato.

5. Con il quarto motivo di ricorso si contesta la condanna dell’imputato per la carenza di formazione del lavoratore deceduto in quanto l’azienda aveva invece implementato un’attività formativa ed insegnato al lavoratore procedure di lavoro corrette che se fossero state osservate avrebbero impedito il verificarsi dell’evento e, in ogni caso, il dovere di formazione sarebbe spettato al dirigente per la sicurezza e non all’imputato.

6. Con un quinto motivo di ricorso si lamenta che il processo causale naturalistico dell’evento non è stato accertato al di là di ogni ragionevole dubbio in quanto non è stato accertato se l’evento mortale sia stato la conseguenza di una patologia cardiaca di cui era affetto il lavoratore anziché dell’infortunio.

7. Con il sesto motivo di ricorso si lamenta la mancanza, la contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione laddove la Corte d’appello ha ritenuto le attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante anziché prevalenti.

RITENUTO IN DIRITTO

1. Si premetta che la normativa applicabile ratione temporis al caso verificatosi nel 2006, è dettata dal d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626 ma le norme riguardanti il fatto per cui si procede si pongono in continuità normativa con le parallele norme che sono subentrate con il d. Igs. 9 aprile 2008, n. 81; di talché i motivi di ricorso possono ben essere vagliati anche alla luce della giurisprudenza formatasi sull’attuale testo unico sulla sicurezza del lavoro.

2. A tal riguardo, in ordine al primo motivo di ricorso circa la qualifica di datore di lavoro, la Corte ha compiutamente individuato nell’imputato, quale soggetto rappresentante legale della Sicit 2000 S.p.A., la figura del datore di lavoro che ha anche avuto sostanzialmente l’esercizio dei poteri decisionali e di spesa. La delibera del 17/06/2003, a parere della difesa, attribuendo all’imputato solo compiti di ordinaria amministrazione, escluderebbe implicitamente quello di curare la sicurezza dei lavoratori. Ma ciò non costituisce un argomento meritevole di accoglimento. Atteso che l’atto di nomina del 17/06/2003 officia l’imputato della qualifica di amministratore delegato e di rappresentante legale della Sicit spa, tale da non dubitare che egli abbia maturato la qualifica di datore, si osservi che sia la sentenza di primo grado, sia la sentenza d’appello, conformemente ricostruiscono in modo esauriente la qualifica di datore di lavoro in capo all’imputato non solo quale amministratore delegato della Sicit 2000 S.p.A. – e ciò già sarebbe sufficiente ai sensi sia dell’art. 2 d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626, sia della identica normativa prevista dall’art. 2, lett. b), d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 – ma anche quale direttore di stabilimento con ampia capacità gestoria dell’intera azienda. Con tali attribuzioni l’imputato ha auto l’esercizio di potestà funzionali organizzative, decisionali, gestionali e di spesa inclusa la realizzazione delle misure di sicurezza previste per legge. Di conseguenza, l’esercizio in concreto dei poteri organizzativi datoriali, nel caso concreto coniugati con la titolarità formale di vertice dell’impresa quale amministratore delegato e rappresentante legale, costituiscono pienamente in capo all’imputato la qualifica datoriale. La competenza per le spese di ordinaria amministrazione, comunque, non soltanto non costituisce una “capitis deminutio” della qualifica datoriale, ma certamente non esclude il potere di spesa in materia di sicurezza; ciò in quanto è obbligo ordinario, non straordinario, e prioritario occuparsi delle misure di prevenzione e protezione in materia di sicurezza. Si consideri che nel caso specifico le misure mancanti sul piano della sicurezza non richiedevano comunque alcuno straordinario impegno di spesa, ma rientravano nel normale esercizio dei doveri e poteri organizzativi, formativi, e di ordinaria vigilanza.

3. Inoltre, la considerazione che l’imputato alla qualifica datoriale – formale e sostanziale – abbia impropriamente cumulato quella di responsabile del servizio di prevenzione e protezione, quindi anche di soggetto deputato alla elaborazione materiale della valutazione del rischio, contribuisce a costituire in capo al medesimo soggetto un coacervo di tutti gli obblighi che convergono in materia di valutazione del rischio, di posizione di garanzia, di adempimenti datoriali. Infatti, sebbene la qualità di datore di lavoro e quella di responsabile del servizio di prevenzione e protezione, in relazione alle dimensioni dell’azienda, avrebbe dovuto risiedere in capo a soggetti diversi, aver unificato entrambe le funzioni, per scelta dello stesso datore di lavoro, contribuisce da un lato a recare confusione nell’ambito dei ruoli decisionali e consultivi nella gerarchia della organizzazione e gestione della sicurezza del lavoro, e dall’altro a concentrare in capo al medesimo soggetto tutti gli oneri esecutivi, elaborativi e decisionali in materia di valutazione, gestione, organizzazione del rischio e di esercizio dei poteri decisionali e di spesa che caratterizzano la figura del datore di lavoro.

Sul punto, proprio la valutazione della difesa esposta nel primo motivo di ricorso, circa l’alterità delle funzioni datoriali e di quelle del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, tipicamente consultive, depone a favore non di un’elisione ma di un duplice ruolo di garanzia svolto dall’imputato particolarmente e deliberatamente concentrato in materia di sicurezza del lavoro, sia sul più alto profilo decisionale e sia sul più importante piano consultivo. Il cumulo di due diversi ruoli – in un caso non previsto dalla normativa vigente all’epoca dei fatti – laddove tali ruoli secondo l’architettura normativa tipica avrebbero dovuto risiedere in capo a soggetti diversi, e invece sono stati confusi, depone per una colpevole opacità e disfunzione organizzativa. Si tratta di un duplice profilo causale colposo che nel caso concreto ha manifestato tutta la sua nocività e ha ingenerato da parte dei lavoratori un incolpevole e legittimo affidamento sul corretto svolgimento dei ruoli e sull’esercizio dei poteri inerenti alle diverse posizioni di garanzia.

Il ruolo consultivo e interlocutorio del r.s.p.p. deve essere funzionalmente distinto da qualsiasi ruolo decisionale, soprattutto da quello datoriale, perché altrimenti si incrociano posizioni e funzioni con compiti strutturalmente diversi, che devono cooperare su piani diversi, decisionale il primo, consultivo il secondo. La dialettica tra chi esercita i poteri organizzativi e chi ha un ruolo tecnico ed elaborativo costituisce la sintesi di base da cui prende le mosse ogni determinazione organizzativa, amministrativa, tecnica, produttiva, in materia di sicurezza. Di conseguenza la confusione dei ruoli di per sé è indice di un colposo difetto di organizzazione che ricade sul datore di lavoro, tutt’altro che esimente.

4. La considerazione che l’imputato sia stato definito in sede contrattuale un dirigente, vale per l’inquadramento mansionale sul piano retributivo e in relazione al proprio rapporto di lavoro con la società, ma non vale ad elidere la figura di datore di lavoro ai fini della sicurezza, che si costituisce sia in ragione di un mero rapporto contrattuale, comunque venga qualificato, sia in presenza dell’esercizio anche soltanto di fatto di poteri decisionali e di spesa, a prescindere dal titolo contrattuale che lo ha insediato in quel ruolo. Nel caso concreto emerge con chiarezza l’esercizio di tali poteri decisionali e di spesa che, sebbene formalmente limitati all’ordinaria amministrazione, comunque comprendevano ogni profilo gestorio e organizzativo sulla produzione, sul controllo degli impianti, sulle procedure lavorative, sulla formazione e informazione che in concreto hanno svolto un determinante ruolo causale dell’evento mortale per cui si procede. Pertanto, deve essere rigettato il primo motivo di ricorso.

5. In ordine al secondo motivo di ricorso, imperniato sulla asserita esistenza di una delega di funzioni a favore dell’ing. Carnara, la sentenza della Corte di appello, in linea con quella di primo grado, evidenzia che è mancata la prova dell’esistenza di un atto formale di trasferimento delle funzioni ad altro soggetto. In particolare, la motivazione espone con chiarezza che tale circostanza è stata allegata ma non provata dalla difesa e che peraltro dalle testimonianze dei dipendenti e del tecnico della prevenzione del servizio di prevenzione sui luoghi di lavoro non è emersa l’esistenza di alcuna delega.

Da tali elementi probatori unitamente ad altre deposizioni testimoniali è invece emerso che l’imputato, presente in fabbrica nel giorno dell’incidente, ha sempre operato direttamente sull’organizzazione del lavoro, sulla ripartizione di compiti, sulla attribuzione di mansioni anche alla vittima dell’incidente mortale per cui si procede, ed ha quindi svolto direttamente e concretamente le proprie funzioni datoriali esplicitate con l’esercizio di propri poteri organizzativi, decisionali e di spesa.

Ne consegue che in assenza di un atto di effettiva delega, in presenza dell’esercizio diretto dei poteri datoriali da parte dell’imputato, non v’è alcun rilevante atto di trasferimento di funzioni all’interno dell’azienda che può rilevare in senso esimente.

Pertanto, si rigetta il secondo motivo di ricorso. …..

download
download

Cassazione Penale, Sez. 3, 01 aprile 2022, n. 11992

La Corte di Appello ha confermato la sentenza di condanna del legale rappresentante di una ditta di costruzioni, sospesa, di mesi quattro di arresto per più reati di cui al d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 in materia di sicurezza del lavoro.

Presidente: PETRUZZELLIS ANNA
Relatore: CERRONI CLAUDIO Data Udienza: 10/02/2022

Fatto

1. Con sentenza del 12 aprile 2021 la Corte di Appello di Messina ha confermato la sentenza del 25 novembre 2019 del Tribunale di Patti, in forza della quale S.L.I., in qualità di legale rappresentante della s.r.l. C.P. Costruzioni, era stato condannato alla pena, sospesa, di mesi quattro di arresto per più reati di cui al d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 in materia di sicurezza del lavoro.
2. Avverso la predetta decisione é stato proposto ricorso per cassazione articolato su un motivo di impugnazione, tramite il quale — invocando violazione di legge e vizio motivazionale – è stato censurato il mancato riconoscimento della speciale causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen..
2.1. In particolare, la sentenza impugnata aveva escluso la non abitualità del fatto in considerazione del numero delle contravvenzioni contestate e della circostanza che esse erano state poste in essere nell’ambito di un’attività imprenditoriale.
Ciò posto, secondo il ricorrente evidente appariva l’illegittimità di quest’ultima giustificazione, non sussistendo al riguardo alcuna esclusione normativa. Quanto agli altri requisiti di legge, era stata omessa ogni valutazione su modalità della condotta nonché esiguità del danno e del pericolo, laddove dalla pluralità delle contravvenzioni non poteva di per sé dedursi l’abitualità del comportamento, attesa la necessità di un’indagine in ordine alla serialità eventuale delle condotte, con una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta.
In specie il ricorrente ha altresì dedotto tanto l’ottemperanza alle prescrizioni imposte quanto l’occasionalità della condotta, sottolineando altresì il quantum di pena, contenuto nel minimo edittale.
3. Il Procuratore generale ha concluso nel senso del rigetto del ricorso.
4. Il difensore ha depositato conclusioni scritte insistendo sul motivo di ricorso, altresì rilevando la prescrizione dei reati contestati.

Diritto

5. Il ricorso è infondato.
5.1. Il primo comma dell’art. 131-bis cod. pen. prevede l’esclusione della punibilità – nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena – quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale.
Devono pertanto ricorrere, congiuntamente e non alternativamente, due condizioni: la particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento.
5.1.1. Quanto al primo requisito, è nozione ormai comune che sia necessaria una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell’art. 133, primo comma, cod. pen., delle modalità della condotta, del grado dì colpevolezza da esse desumibile e dell’entità del danno o del pericolo (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266590).
La – pacifica – natura di reato di pericolo presunto, rivestita dalle contravvenzioni contestate al ricorrente, richiede pertanto una valutazione complessiva della condotta criminosa, sulla base degli elementi indicati dal primo comma dell’art. 133 cod. pen., correlata alla lesione potenziale del bene giuridico tutelato dalla norma penale, ossia la sicurezza sul lavoro, che prenda in esame tutte le peculiarità della fattispecie concreta in termini di possibile disvalore.
In relazione a tal genere di reati, la valutazione in ordine all’offesa al bene giuridico protetto va invero tra l’altro retrocessa al momento della condotta secondo un giudizio prognostico ex ante, essendo irrilevante l’assenza in concreto, successivamente riscontrata, di qualsivoglia lesione (Sez. 3, n. 19439 del 17/01/2012, Miotti, Rv. 252908; Sez. 3, n. 23184 del 23/06/2020, Runco, Rv. 280158).
Il compito del giudice di merito si risolve pertanto in un accertamento diretto a verificare che il fatto di reato abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l’interesse tutelato dalla disposizione incriminatrice. Infatti il pericolo di offesa al bene giuridico sorge, potendo perciò ritenersi integrata la categoria penalistica del “pericolo”, quando, secondo un giudizio appunto ex ante e secondo le evidenze disponibili certificate dalla migliore scienza ed esperienza, appare probabile che, secondo l’id quod plerumque accidit, dalla condotta consegua l’evento lesivo che il legislatore, anticipando il momento della tutela, intende scongiurare.
Non può così ritenersi che, nella specie, la sanzione penale sia stata inflitta per una condotta formalmente inosservante, ma totalmente inoffensiva, in quanto nelle ripetute condotte riscontrate deve ritenersi contenuto un disvalore tale da concretizzare la messa in pericolo della sicurezza sul lavoro, quale bene finale tutelato dalle norme incriminatrici. Non può parlarsi, infatti, di infrazioni aventi natura esclusivamente formale, poiché sicuramente l’inosservanza delle prescrizioni determina situazioni intrinseche di rischio non marginali, essendo suscettibili di mettere in pericolo l’incolumità e la stessa vita dei lavoratori che si trovino ad operare in assenza dei necessari presidi di sicurezza.
Non rileva altresì in proposito il comportamento tenuto dall’agente post delictum, atteso che la norma di cui all’art. 131-bis cit. correla l’esiguità del disvalore ad una valutazione congiunta delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile, dell’entità del danno o del pericolo, da apprezzare in relazione ai soli profili di cui all’art. 133, comma primo, cod. pen., e non invece con riguardo a quelli, indicativi di capacità a delinquere, di cui al secondo comma, includenti la condotta susseguente al reato (Sez. 5, n. 660 del 02/12/2019, P., Rv. 278555; Sez. 3, n. 23184 cit., laddove è stata ritenuta immune da censure la decisione di merito nella parte in cui aveva considerato ininfluente, ai fini del riconoscimento della causa di non punibilità, l’adempimento tardivo alle prescrizioni imposte dall’organo amministrativo, in quanto post factum del tutto neutro rispetto al grado di offensività dell’illecito).

La valutazione di non punibilità si pone logicamente in un momento successivo rispetto all’accertamento del fatto di reato in tutti i suoi elementi costitutivi, per la cui giuridica esistenza è necessariamente richiesta la presenza di un fatto tipico, antigiuridico e colpevole e non anche l’assoggettamento, in concreto, alla sanzione penale di colui che lo ha commesso. Da ciò consegue che il tardivo adempimento alle prescrizioni dell’organo amministrativo è un post factum neutro rispetto al disvalore dell’illecito penale, anche in termini di offensività. Pertanto, non ha alcuna rilevanza la circostanza indicata dalla difesa, ossia l’avere sottolineato, nell’atto di appello, l’ottemperanza, da parte del ricorrente, alle prescrizioni imposte quale elemento idoneo per il riconoscimento della causa di esclusione della punibilità.
Per quanto concerne, invece, il secondo requisito, è il medesimo art. 131-bis cod. pen., al comma terzo, che specifica quando il comportamento è abituale, ossia nel caso in cui l’autore sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza ovvero abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate.
Non può così riconoscersi la causa di esclusione della punibilità qualora l’imputato abbia commesso più reati della stessa indole (ovvero plurime violazioni della stessa o di diverse disposizioni penali sorrette dalla medesima ratio), poiché è la stessa previsione normativa a considerare il “fatto” nella sua dimensione “plurima”, secondo una valutazione complessiva in cui perde rilevanza l’eventuale particolare tenuità dei singoli segmenti in cui esso si articola (Sez. 5, n. 26813 del 10/02/2016, Grosoli, Rv. 267262).
È proprio, quindi, l’art. 131-bis, comma terzo, cit., che non consente di applicare in specie la causa di non punibilità, atteso che esso esclude, tra l’altro, di poter riconoscere tale causa in favore di chi abbia commesso più reati della stessa indole, anche nell’ipotesi in cui ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità.
Con tale previsione il legislatore non si è voluto riferire solo ai casi in cui l’autore del reato sia gravato da precedenti penali (atteso che, se ciò fosse stato il suo intento si sarebbe espresso in termini di recidiva specifica). E’ possibile invece dedurre che anche al soggetto agente, che abbia violato più volte la stessa o più disposizioni penali sorrette dalla stessa ratio puniendi, non può essere applicata la causa di non punibilità, in quanto è la stessa norma a considerare il fatto secondo una valutazione d’insieme. Infatti, non ha alcuna importanza l’eventuale particolare tenuità dei singoli segmenti in cui il fatto si articola, ma ciò che rileva è che esso, complessivamente considerato, sia connotato da una gravità tale da non poter essere considerato di particolare tenuità.
Deve, dunque, affermarsi che la speciale causa di cui all’art. 131-bis cit. non può essere applicata, ai sensi del terzo comma del predetto articolo, qualora l’imputato, anche se non gravato da precedenti penali specifici, abbia commesso più reati della stessa indole (ovvero plurime violazioni della stessa o di diverse disposizioni penali sorrette dalla medesima ratio), anche nell’ipotesi in cui ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità (Sez. 3, n. 776 del 04/04/2017, Del Galdo, Rv. 271863).
Peraltro, l’identità dell’indole dei reati eventualmente commessi deve essere valutata dal giudice in relazione al caso esaminato, verificando se in concreto i reati presentino caratteri fondamentali comuni (Sez. 5, n. 53401 del 30/05/2018, M., Rv. 274186; Sez. 4, n. 27323 del 04/05/2017, Garbocci, Rv. 270107).
Correttamente, dunque, la Corte di Appello ha negato l’applicabilità dell’invocata norma, essendosi l’imputato reso responsabile di molteplici violazioni di norme riguardanti reati della stessa indole, in quanto lesivi del medesimo bene giuridico tutelato, ossia la sicurezza sul lavoro.
In tal senso va quindi letto il passaggio motivazionale richiamatosi all’attività imprenditoriale del ricorrente, atteso che in tale ambito lavorativo sono state consumate una pluralità di condotte di pericolo, in sé sicuramente non marginali ed espressive invece di una specifica e reiterata sottovalutazione dei rischi che invece comportamenti prescritti, ma inosservati, erano chiamati a positivamente fronteggia re.
6. In relazione infine al foglio di conclusioni e ai rilievi ivi svolti circa la pretesa intervenuta prescrizione, trattasi di considerazioni non fondate.
I reati sono stati accertati il 2 dicembre 2016.
Al termine quinquennale di prescrizione di cui agli artt. 157, comma 1 e 161, comma 2, cod. pen. devono peraltro aggiungersi i periodi di sospensione della prescrizione dal 16 gennaio al 9 aprile 2019 nonché dal 9 aprile 2019 e dal 5 luglio 2019, in queste due ultime ipotesi per sessantuno giorni ciascuna. Ictu oculi la causa di estinzione non è pertanto maturata alla data della decisione di questa Corte.
7. Alla complessiva infondatezza del motivo di impugnazione consegue il rigetto del ricorso, con la condanna altresì del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il 10/02/2022

Sentenza prevenzione infortuni per l’amministratore di condominio

Cassazione Penale, Sez. 4, 16 marzo 2021, n. 10136 – Decesso della dipendente di una ditta di pulizie colpita dall’ascensore. Non vi è aggravante della violazione di norme in materia di prevenzione infortuni per l’amministratore di condominio

Fatto

1. D.F. ricorre per cassazione avverso la sentenza in epigrafe indicata, con la quale è stata confermata la pronuncia di condanna emessa in primo grado, in ordine al reato di cui all’art. 589 cod. pen., perché in qualità di amministratore di condominio e quindi di committente dei lavori di pulizia della porzione superiore delle grate poste a protezione del vano ascensore, ometteva di verificare l’idoneità tecnico-professionale della srl “M.C.S.” nonché di effettuare una compiuta valutazione del documento di valutazione dei rischi della predetta società, relativamente alle operazioni di pulizia, ove non erano individuati rischi e pericoli riguardanti operazioni da svolgersi su grate e ascensori e non era prescritta la disattivazione dell’alimentazione dell’elevatore nel corso dei lavori di pulizia sulla griglia protettiva, e così concorreva con l’amministratore unico della MCS alla morte di P.P., dipendente di tale società, la quale, mentre svolgeva operazioni di pulizia della porzione superiore delle grate, veniva colpita dall’ascensore, azionato in discesa da una condomina, decedendo in conseguenza delle lesioni subite.

2. Il ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione, poiché l’amministratore del condominio non è titolare di alcuna posizione di garanzia, in quanto l’appalto dei lavori di ripulitura delle grate dell’ascensore era stato deciso ed assegnato mediante una delibera assembleare alla quale l’amministratore stesso era vincolato e a cui era tenuto a dare corretta attuazione, senza alcun autonomo potere di azione né di ingerenza in ordine ai lavori deliberati. L’assemblea condominiale valutò sia l’idoneità tecnica che la capacità organizzativa della impresa “MCS”.
2.1. L’impresa ha materialmente provveduto, avvalendosi di due dipendenti, alla pulitura delle grate dell’ascensore. Da ciò consegue che la disciplina di cui al d. lg. n. 81 del 2008 non può applicarsi all’amministratore D.F., il quale si limitò a dare attuazione alla delibera assembleare, non esplicando alcun ruolo nell’esecuzione e nell’organizzazione dei lavori. L’art. 26 d. lg. n. 81 del 2008 indica, infatti, espressamente e unicamente il datore di lavoro quale titolare degli obblighi in materia di sicurezza, non essendo possibile, in materia penalistica, in ossequio al principio di stretta legalità, estendere i detti obblighi ad altri soggetti. Il titolare dell’impresa, C., che ne era anche direttore tecnico, era quindi l’unico ad avere l’obbligo di impartire le istruzioni ai dipendenti e di verificarne l’esatta osservanza da parte di questi ultimi. E comunque i lavori deliberati riguardavano la pulizia delle grate esterne dell’ascensore, circostanza confermata dal C., in sede di interrogatorio. Si trattava di lavori assai semplici, che non richiedevano, da parte dell’amministratore, alcun controllo continuo e capillare.
2.1. Il giudice di primo grado ha inspiegabilmente omesso di condannare al risarcimento del danno anche il responsabile civile srl “MCS”, correttamente citato ma non costituitosi nel presente procedimento. Questa omissione, rilevata anche in sede di appello, ha avuto come effetto quello della mancata ripartizione della provvisionale anche nei confronti della impresa “MCS”. Nella sentenza impugnata il giudice d’appello, senza minimamente affrontare la problematica proposta dal ricorrente, in dispositivo ha esteso la condanna al risarcimento dei danni nei confronti dell’imputato C. Manolo al responsabile civile “MCS” srl, in solido con detto imputato. Orbene, posto che l’istanza per la concessione della provvisionale va trattata nel contraddittorio tra le parti, appare di tutta evidenza come la mancata estensione della condanna al risarcimento dei danni anche nei confronti del responsabile civile citato ma non costituito abbia violato il principio del contraddittorio.
Si chiede pertanto annullamento della sentenza impugnata.

3. Con memoria del 14 ottobre 2020, l’INAIL ha chiesto declaratoria di inammissibilità del ricorso e conferma della sentenza impugnata

Diritto

1.Il primo motivo di ricorso è fondato. Si è, infatti, condivisibilmente, ritenuto, in giurisprudenza, che l’ amministratore che stipuli un contratto di affidamento in appalto di lavori da eseguirsi nell’interesse del condominio può assumere, ove la delibera assembleare gli riconosca autonomia di azione e concreti poteri decisionali, la posizione di “committente”, come tale tenuto all’osservanza degli obblighi di verifica della idoneità tecnico-professionale della impresa appaltatrice, di informazione sui rischi specifici esistenti nell’ambiente di lavoro e di cooperazione e coordinamento nella attuazione delle misure di prevenzione e protezione (Cass., Sez. 3, n.42347del 18/09/2013, Rv. 257276 – 01). Il giudice a quo avrebbe dunque dovuto analizzare la questione inerente alla ravvisabilità, in capo all’amministratore del condominio, di una autonomia di azione e di concreti poteri decisionali eventualmente conferitigli, in relazione ai lavori in esame, dalla delibera assembleare, tanto più che il tema era indissolubilmente connesso alle problematiche devolute alla Corte territoriale con i motivi di gravame. Tale profilo è invece del tutto estraneo all’apparato argomentativo della pronuncia impugnata, che si limita ad affermare apoditticamente che l’assemblea aveva deliberato all’unanimità la sostituzione della ditta incaricata della manutenzione dell’ascensore, lasciando poi l’amministratore arbitro della situazione e responsabile dell’impostazione del rapporto con la nuova ditta appaltatrice, senza chiarire da quali risultanze abbia desunto tale conclusione. Non è dato dunque comprendere se la srl “MCS” fosse stata individuata dall’amministratore, che avesse presentato all’assemblea tale impresa come affidabile, o da qualcuno dei condomini; se l’assemblea avesse valutato direttamente l’idoneità tecnico-professionale della impresa prescelta o se avesse dato mandato all’amministratore di verificarla; se la compiuta valutazione del documento di valutazione dei rischi fosse stata effettuata prima dell’assegnazione dell’incarico – e da chi – e dunque già tenuta in considerazione dall’assemblea all’atto dell’assegnazione dell’incarico o se l’assemblea avesse conferito mandato al riguardo all’amministratore; se l’assemblea non avesse dato alcuna precisa direttiva all’amministratore, conferendogli un’ampia autonomia decisionale ed operativa, oppure se lo avesse incaricato esclusivamente di dare pedissequamente esecuzione alla deliberazione assembleare, senza alcuna possibilità di ulteriore valutazione, da parte del D.F., dell’idoneità tecnico-professionale dell’impresa o del documento di valutazione dei rischi. Né significative indicazioni al riguardo sono desumibili, sia pur implicitamente, ma in modo sufficientemente chiaro, dal complessivo apparato giustificativo a sostegno della decisione adottata. Siamo dunque in presenza del vizio di mancanza di motivazione, che è ravvisabile non solo quando quest’ultima venga completamente omessa ma anche quando sia priva di singoli momenti esplicativi in ordine ai temi sui quali deve vertere il giudizio (Cass., Sez. 6, n. 27151 del 27-6-2011; Sez. 6, n. 35918 del 17-6-2009, Rv. 244763). Si impone, quindi, al riguardo, un pronunciamento rescindente.

2. Anche il secondo motivo di ricorso merita accoglimento. Non è, infatti, ravvisabile nel caso in esame l’aggravante della violazione di norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro. Al D.F. è stata, infatti, contestata la violazione degli artt. 26 e 90 d. lg. n. 81 del 2008. Ma i rilievi appena svolti impediscono di ritenere sussistente la violazione, da parte del D.F., dell’art. 90 d. lg. n. 81 del 2008. Al D.F. non può, infatti, essere attribuita la qualità di committente, poiché committente era il condominio di v. Corvisieri, n. 3, di cui il D.F. era rappresentante. Solo nel caso in cui fosse stato dimostrato il conferimento, da parte dell’assemblea condominiale, all’amministratore del potere di verificare l’idoneità tecnico-professionale della società MCS e di effettuare una disamina del documento di valutazione dei rischi della predetta impresa relativamente alle operazioni di pulizia, avrebbe potuto ritenersi applicabile al D.F. il disposto dell’art. 90 d. lg. n. 81 del 2008. Ma, come appena rilevato, nel tessuto argomentativo della pronuncia impugnata è riscontrabile al riguardo la più totale mancanza di elementi. Per quanto attiene invece all’art. 26, quest’ultima norma si riferisce esclusivamente al datore di lavoro e la sua portata precettiva non può essere estesa a soggetti diversi e non contemplati dalla norma. D’altronde, poichè l’imputazione contestata a D.F. è autonoma rispetto a quella mossa al datore di lavoro e cioè all’amministratore della srl “MCS”, non viene prospettata una cooperazione colposa fra quest’ultimo e l’amministratore del condominio, il quale dunque rimane estraneo all’applicazione dei precetti rivolti al datore di lavoro. In mancanza dell’aggravante della violazione di norme antinfortunistiche, il reato di cui all’art 589, comma 1 , cod. pen. è estinto per prescrizione, risalendo al 13-9-2010. In ordine ai profili che permangono sub iudice, la regiudicanda va pertanto devoluta alla cognizione del giudice civile ( Sez. U., n. 40109 del 18 luglio 2013, Sciortino, Rv. 256087).
3. La sentenza impugnata va dunque annullata senza rinvio, agli effetti penali, nei confronti di D.F., perché il reato è estinto per prescrizione. La medesima sentenza va inoltre annullata agli effetti civili nei confronti dello stesso D.F., nonché del condominio sito in Roma, v. Corvisieri n. 3, responsabile civile, con rinvio, per nuovo giudizio, al giudice civile competente per valore in grado di appello, cui rimette anche la regolamentazione delle spese tra le parti relativamente al presente giudizio di legittimità. La natura rescindente di tale epilogo decisorio determina l’ultroneità della disamina dell’ultimo motivo di ricorso.

PQM

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata agli effetti penali nei confronti di D.F., perché il reato è estinto per prescrizione. Annulla la medesima sentenza agli effetti civili nei confronti dello stesso D.F., nonché del condominio sito in Roma, v. Corvisieri, n. 3, responsabile civile, e rinvia, per nuovo giudizio, al giudice civile competente per valore in grado di appello, cui rimette anche la regolamentazione delle spese tra le parti relativamente al presente giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 20-10-2020.

scarica
download documenti

Decesso della dipendente di una ditta di pulizie colpita dall’ascensore.

Presidente: IZZO FAUSTO
Relatore: DI SALVO EMANUELE
Data Udienza: 20/10/2020

Collaborazione del medico competente dell’ASL con il datore di lavoro

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. IV PENALE – SENTENZA 01 giugno 2021 N. 21521

L’obbligo di collaborazione del medico competente dell’ASL con il datore di lavoro.

La seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: TIRABOSCHI GIANPIETRO nato a BOLGARE il 09/12/1948 avverso la sentenza del 19/11/2019 della CORTE APPELLO di BRESCIA visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere SALVATORE DOVERE; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore DELTA CARDIA che ha concluso chiedendo /1; e3 1454)

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di appello di Brescia ha confermato la pronuncia emessa dal Tribunale d Brescia nei confronti di Tiraboschi Gianpietro, giudicato responsabile del reato di cui all’art. 590 cod. pen. in danno di Enrico Moscardi e condannato alla pena ritenuta equa.

Secondo l’accertamento condotto nei gradi di merito Enrico Moscardi, infermiere professionale presso l’ospedale di Esine, aveva contratto il virus dell’epatite nello svolgimento della propria attività professionale. Era accaduto che il 13 agosto 2013, mentre effettuava un prelievo di sangue venoso su una paziente affetta da HVC e HVB, a causa di un improvviso movimento della mano di quest’ultima, il Moscardi era stato accidentalmente punto dall’ago che stava utilizzando nell’arteria radiale del polso sinistro.

Ad avviso dei giudici di merito cioè era stato possibile perché in uso all’infermiere era un ago cannula 18G Delta2, sprovvisto di dispositivo di sicurezza.

La malattia contratta dal lavoratore era da attribuirsi al Tiraboschi, che in qualità di medico competente dell’ASL di Vallecamonica Sebino aveva omesso di collaborare con il datore di lavoro nella valutazione del rischio biologico rappresentato, per il personale sanitario addetto all’UO di P.S. del presidio ospedaliero di Esine, anche dalla possibile contrazione di patologie infettive per via ematica a causa di punture e ferite con aghi e taglienti contaminati da sangue infetto. In particolare, la Corte di appello, ribadendo il giudizio del Tribunale, ha ritenuto accertato che la malattia era stata contratta dal Moscardi in occasione del prelievo ematico eseguito sulla paziente infetta; che la durata della malattia era stata superiore a 40 giorni e ciò in quanto il Moscardi aveva dovuto sottoporsi ad un trattamento farmacologico necessario per debellare il virus dall’organismo avente effetti collaterali che rendevano rilevanti, ai fini penali, anche le giornate di forzata inattività per ragioni di salute succedutesi nel corso della cura e imputabili a quelli effetti collaterali; in ogni caso, nel concetto di malattia rilevante ai fini dell’integrazione del reato di lesioni personali rientra qualsiasi alterazione anatomico funzionale dell’organismo e quindi anche lo stato di alterazione dell’organismo determinato dalla presenza in esso di un fattore patogeno potenzialmente in grado di portare quel processo a conclamate forme di acutizzazione.

Quanto alla condotta illecita attribuita al Tiraboschi, la Corte d’appello ha ritenuto accertato che nell’agosto del 2013 non vi erano a disposizione aghi cannula protetti e che la scelta dell’operatore circa l’uso degli aghi cannula o dei dispositivi denominati Butterfly – dotati di meccanismi di protezione – era determinata dall’uso che doveva essere fatto degli stessi e dalle condizioni del paziente,  sicchè non era una libera scelta dell’operatore quella di fare ricorso agli aghi cannula non protetti piuttosto che al cd. Butterfly.

La Corte di appello ha anche escluso che in ordine alla posizione del Tiraboschi potesse essere significativo che gli aghi cannula protetti non fossero disponibili presso la farmacia dell’ospedale, posto che al medesimo veniva rimproverato di non aver previsto l’adozione e l’uso degli stessi nel documento di valutazione dei rischi, alla cui stesura era stato chiamato a collaborare in qualità di medico competente.

A tal ultimo riguardo, la Corte di appello ha evidenziato che la tematica del rischio biologico conseguente all’utilizzo negli ospedali di aghi senza protezione era ben noto nella normativa specialistica dell’epoca del fatto e che l’affermazione dell’ imputato, secondo la quale egli avrebbe ripetutamente segnalato alla direzione sanitaria anche in sede di riunione periodico annuale ai sensi dell’articolo 35 TUSL la proposta di adottare quei presidi suggeriti dall’evoluzione della tecnologia e dunque gli aghi protetti, non trovava corrispondenza nella documentazione acquisita agli atti.

Pertanto, l’omissione ascritta al Tiraboschi era effettivamente sussistente ed aveva avuto un’effettiva incidenza rispetto al verificarsi dell’evento, perché una eventuale segnalazione effettuata dal medico competente, corredata di specifiche indicazioni e valutazioni circa la pericolosità dell’utilizzo dei dispositivi privi di protezione e la necessità di una loro sostituzione, avrebbe avuto quale seguito la concreta esecuzione delle misure e l’approvvigionamento di quelle attrezzature.

A tal proposito, per la corte territoriale, era proprio l’individuazione nel DVR della specifica misura antinfortunistica ad orientare la spesa in modo da renderne possibile l’adozione e non piuttosto il contrario.

Peraltro, con riferimento al caso concreto, la Corte di Appello ha escluso che il problema dei costi fosse un reale ostacolo, richiamando a riguardo la testimonianza della direttrice della farmacia dell’azienda ospedaliera, Angela Vender.

2. L’imputato ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza, a mezzo del difensore avv. Aronne Bona, articolando cinque motivi. 2.1. Con il primo il ricorrente censura il ragionamento posto dalla Corte di appello alla base del giudizio di sussistenza del nesso causale perché esso viola il principio secondo il quale la responsabilità dell’imputato deve essere accertata oltre ogni ragionevole dubbio. Ciò in quanto la corte distrettuale ha ritenuto che fosse decisivo che non fossero stati provati altri episodi potenzialmente causativi dell’evento, nonostante essi non siano stati cercati e in particolare, nessun accertamento clinico sia stato effettuato per individuare la reale causa di quanto accaduto all’infermiere. In sintesi, non è corretto individuare una potenziale causa ‘per esclusione’ senza in realtà una verifica sulle situazioni tutte potenzialmente causative dell’evento. Considerato l’ambiente nel quale operava il Moscardi non è al di fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana che egli si fosse infettato in altre circostanze. 2.2.

Con un secondo motivo il ricorrente si duole della violazione dell’art. 583 cod. pen. per aver la Corte di appello ritenuto che la durata della malattia del Moscardi abbia avuto una durata superiore a quaranta giorni sulla base di una nozione di malattia difforme dal concetto clinico, il quale richiede il concorso del requisito essenziale di una riduzione apprezzabile di funzionalità; pertanto la sentenza è viziata laddove computa un periodo di cura cautelativa per l’evenienza che il virus non fosse stato debellato.

Il terzo motivo attinge la motivazione che si reputa viziata da evidente illogicità perché il Tiraboschi è stato ritenuto corresponsabile con i soggetti (il datore di lavoro e il direttore del P.S.) con i quali era chiamato a collaborare, nonostante questi ultimi siano stati assolti. Il venir meno della presunta responsabilità principale non può che far venir meno quella concorrente. L’affermazione secondo la quale non grava sul delegato dal datore di lavoro il compito di valutare i rischi e di individuare i necessari Dpi non può che valere anche per il Tiraboschi; e se il coimputato Soccio (direttore dell’U.O. Pronto Soccorso) era stato assolto per non avere egli poteri di spesa e nemmeno obblighi di segnalazione non si può rimproverare alcunché al Tiraboschi che era nella medesima condizione. L’assoluzione del datore di lavoro, Pedrini Renato, tenuto all’adempimento dei propri obblighi senza necessità di sollecitazioni esterne, rende illogica la condanna del Tiraboschi. Il vizio motivazionale viene colto anche laddove si ritiene che il rischio in parola non fosse stato segnalato, nonostante esso fosse noto ed evidente e comunque segnalato dal Tiraboschi, dal Soccio e da altri soggetti operanti nel P.S. Inoltre, è una mera deduzione che alla segnalazione sarebbe seguita, da parte del datore di lavoro, l’adozione delle misure, perché dalle prove acquisite emerge che il Pedrini, pur avendo conoscenza del rischio, non ne aveva tenuto conto nel DVR.

Il quarto motivo denuncia la violazione delle previsioni del d.lgs. n. 81/2008 perché la Corte di appello non ha tenuto conto che il medico competente non ha poteri di decisione e di spesa e che da tutte le testimonianze è emerso che non era disponibile un budget adeguato alla necessità di acquisto degli aghi cannula protetti; e perché è stata pronunciata condanna senza escludere che vi fosse stata una denuncia del rischio anche solo in forma orale, non essendo previste forme particolari e che fosse rischio non rientrante nelle competenze del Tiraboschi. Con l’ultimo motivo si censura la sentenza impugnata per un ulteriore vizio motivazionale rinvenuto laddove la Corte di appello laddove la Corte di appello ha affermato il nesso causale tra la lesione del lavoratore e la condotta del Tiraboschi, senza considerare le circostanze che avrebbero comunque impedito l’acquisto dei dispositivi, ovvero l’assenza di fondi.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso è infondato, per taluni motivi ai limiti dell’inammissibilità. 3.1. Con riferimento al primo motivo va rilevato che quel che il ricorrente prospetta è una interpretazione della ‘regola dell’esclusione’. Ovvero della prescrizione metodologica posta per prima dalla sentenza Franzese, per la quale nel reato colposo omissivo improprio il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso è configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, l’evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva (Sez. U, Sentenza n. 30328 del 10/07/2002, Rv. 222138 – 01).

Pertanto, l’ipotesi causale fondata sulla legge di spiegazione generalizzante deve trovare conferma nel caso specifico mediante l’accertamento della inoperosità di causali alternative. Ma la prospettazione del ricorrente non è coerente con i principi posti dalla giurisprudenza. La quale richiede che il giudice si impegni nell’accertamento della inoperosità dei soli fattori che sono riconosciuti come astrattamente in grado di determinare l’evento e che gli elementi processuali indichino come presenti nella vicenda in esame. Fuori da questo perimetro la regola dell’esclusione sarebbe invero ingovernabile, perché dovrebbe confrontarsi con la semplice congettura della possibile esistenza di fattori alternativi, senza che gli stessi siano identificati dal sapere acquisito, e senza che i dati probatori disponibili diano indizi della loro presenza nella singola vicenda. 3.2. Il secondo motivo è parimenti infondato. L’insegnamento di questa Corte in merito al concetto di malattia ai sensi e agli effetti dell’art. 582 cod. pen. vuole che la relativa nozione non comprenda tutte le alterazioni di natura anatomica, che possono anche mancare, bensì solo quelle da cui deriva una limitazione funzionale o un significativo processo patologico o l’aggravamento di esso ovvero una compromissione delle funzioni dell’organismo, anche non definitiva, ma comunque significativa (Sez. 5 – , Sentenza n. 33492 del 14/05/2019, Gattuso, Rv. 276930 – 01). La lesione personale deve considerarsi grave se l’incapacità ad attendere alle ordinarie occupazioni perduri oltre il quarantesimo giorno, ivi compreso il periodo di convalescenza o quello di riposo dipendente dalla malattia (Sez. 5, Sentenza n. 4014 del 27/10/2015, dep. 2016, Cucchiella, Rv. 267556 – 01).
3.3. Il terzo e il quarto motivo attengono al tema dei doveri del medico competente. Si assume che l’assoluzione del datore di lavoro e del suo delegato deve riflettersi sulla posizione del Tiraboschi. L’assunto, che peraltro non recluta alcun argomento giuridico ma si affida solo una sua pretesa logicità, è del tutto infondato. Il medico competente è titolare di una propria sfera di competenza; si tratta di un garante a titolo originario e non derivato. E peraltro, l’obbligo di collaborazione con il datore di lavoro da parte del medico competente, il cui inadempimento integra il reato di cui agli artt. 25, comma primo, lett. a) e 58, comma primo, lett. c), del D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, comporta un’effettiva integrazione nel contesto aziendale del sanitario, il quale non deve limitarsi ad un ruolo meramente passivo, ma deve dedicarsi ad un’attività propositiva e informativa in relazione al proprio ambito professionale (Sez. 3, Sentenza n. 38402 del 27/04/2018, Baldeschi, Rv. 273913 – 01). Il ricorso, poi, laddove pretende di dare rilievo all’ipotesi che la richiesta di acquisizione dei dispositivi di sicurezza sia stata fatta oralmente, propone un tema che avrebbe dovuto essere proposto in sede di merito. 3.4.

L’ultimo motivo è aspecifico. Il tema dell’esito del giudizio controfattuale è stato affrontato dalla corte territoriale che ha affermato la rilevanza causale del comportamento doveroso in ragione di circostanze di fatto puntualmente indicate. La motivazione al riguardo non è manifestamente illogica ed è ancorata a evidenze processuali neppure contestate dal ricorrente. 4. Segue al rigetto del ricorso la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 9/2/2021.

scarica
download sentenza

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. IV PENALE – SENTENZA 01 giugno 2021 N. 21521

L’obbligo di collaborazione del medico competente dell’ASL con il datore di lavoro.

Sentenza DVR e COVID-19

La sentenza Cass. Pen., Sez. IV, 24 maggio 2021, n. 20416, si pronuncia sul rapporto tra il rischio biologico da contagio da COVID-19, la contrazione del virus e il conseguente obbligo del datore di lavoro di indicare tale rischio nel Documento di valutazione del rischio (DVR).

Cassazione Penale, Sez. 4, 24 maggio 2021, n. 20416 – Reato di epidemia colposa da Covid 19 nella casa di riposo. Non sussiste nesso di causalità tra l’omessa integrazione del DVR con il rischio biologico e la diffusione del virus

Il Tribunale per il riesame di Catania annullava il decreto di sequestro preventivo di una casa di riposo, emesso dal GIP del Tribunale di Caltagirone nei confronti del legale rappresentante della stessa, indagato per epidemia colposa e per violazioni in materia di salute e di sicurezza del lavoro contestate in violazione del d.P.C.M. 24 aprile 2020, connesso all’emergenza COVID-19.

Ricorre in Cassazione il Procuratore della Repubblica affermando che il Tribunale ha erroneamente ritenuto che il reato di epidemia colposa postula necessariamente una condotta commissiva a forma vincolata, condotta che nel caso di specie non era stata ritenuta sussistente.

La Corte rigetta il ricorso ed esclude la configurabilità della fattispecie nella vicenda in esame in quanto l’ordinanza del Tribunale richiama un recente orientamento giurisprudenziale secondo cui, “in tema di delitto di epidemia colposa, non è configurabile una responsabilità a titolo di omissione in quanto l’art. 438 c.p., con la locuzione “mediante la diffusione di germi patogeni”, richiede una condotta commissiva a forma vincolata incompatibile con il disposto dell’art. 40, comma 2, c.p., riferibile esclusivamente alla fattispecie a forma libera”.

Presidente: FUMU GIACOMO
Relatore: CENCI DANIELE Data Udienza: 04/03/2021

Fatto

1. Il Tribunale per il riesame di Catania, adito ai sensi dell’art. 324 cod. proc. pen., il 18 giugno – 30 luglio 2020 ha annullato il decreto di sequestro preventivo (e di convalida del sequestro di urgenza adottato dal P.M. il 12 maggio 2020) della casa di riposo “Don Bosco” di Caltagirone, emesso il 14-15 maggio 2020 dal G.i.p. del Tribunale di Caltagirone nei confronti di G.L., indagato per epidemia colposa (artt. 438-452 cod. pen.) e per violazioni in materia di salute e di sicurezza del lavoro (artt. 65, 68 e 271 del d. lgs. 9 aprile 2008, n. 81), fatti ipotizzati come commessi tra il 22 aprile ed il 5 maggio 2020.

2. G.L. risulta essere il legale rappresentante della società cooperativa sociale che gestisce la casa di riposo “Don Bosco” di Caltagirone, oggetto di accertamenti da parte dei Carabinieri compendiati nelle note del 4, del 5, del 7 e dell’11 maggio 2020, che hanno segnalato, tra l’altro, la omessa doverosa integrazione del documento di valutazione dei rischi con le procedure previste dal D.P.C.M. 24 aprile 2020 e l’omesso aggiornamento dello stesso.

3. Ricorre per la cassazione dell’ordinanza il Procuratore della Repubblica del Tribunale di Caltagirone, affidandosi a due motivi con i quali denunzia violazione di legge.
3.1. Con il primo motivo lamenta violazione degli artt. 438 e 452 cod. pen.
Rammenta che il Tribunale ha ritenuto che il reato di epidemia colposa postuli necessariamente una condotta commissiva a forma vincolata, di per sé incompatibile con la responsabilità a titolo di omissione e, quindi, con il disposto dell’art 40, comma 2, cod. pen., che si riferisce solo ai reati a forma libera.
Secondo il P.M., invece, l’inciso “mediante la diffusione di germi patogeni” di cui all’art. 438 cod. pen. non rappresenta una peculiare modalità di realizzazione della condotta ma specifica il tipo di evento che la norma penale punisce in caso di verificazione: la fattispecie di cui agli artt. 438-452 cod. pen., per ragioni sia testuali che sistematiche, non esige una condotta commissiva a forma vincolata e, di per sé, non è incompatibile con una responsabilità di tipo omissivo.
In tal senso – sottolinea il ricorrente – si è pronunziata la Corte di cassazione nella motivazione della sentenza di Sez. 1, n. 48014 del 30/10/2019, P., Rv. 277791-01.
Prosegue così il ricorso: «Orbene, il COVID-19 è una malattia infettiva ad alto tasso di contagiosità (tanto da essere stata dichiarata “pandemia”), che, diffondendosi con elevata rapidità per via aerea e/o tramite contatto con superfici contaminate, desta un notevole allarme sociale e correlativo pericolo per un numero indeterminato di persone, propria a casa della sua capacità di propagazione. Pertanto, alla luce delle superiori considerazioni, anche la mancata integrazione e/o l’omesso aggiornamento del Documento di Valutazione dei Rischi rispetto al rischio biologico in generale, e a quello da COVID-19 in particolare, costituiscono condotte che integrano gli estremi della fattispecie incriminatrice di cu agli artt. 438 e 452 c.p., a fronte della loro efficienza causale a cagionare un’epidemia a titolo colposo, come del resto si è verificato nel caso di specie, ove numerosi anziani (oggi deceduti) e lavoratori dipendenti sono risultati positivi al virus» (così alla pp. 3-4).
3.2. Con l’ulteriore motivo il ricorrente censura la violazione degli artt. 324, comma 7, 309, comma 9, e 321 cod. proc. pen., nella parte in cui il sindacato giurisdizionale non si è limitato ad accertare la possibilità di sussumere la fattispecie concreta in una delle figure di reato prospettate dal Pubblico Ministero (comprese quelle concernenti le violazioni in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro) ma si è spinto, eccedendo – si ritiene – i poteri al Tribunale spettanti, a sindacare la concreta fondatezza dell’ipotesi accusatoria.
Si chiede, dunque, l’annullamento dell’ordinanza impugnata.

4. Il P.G. della Corte di cassazione nelle conclusioni scritte del 15 febbraio 2021 (ex art. 23, comma 8, del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, nella I. 18 dicembre 2020, n. 176) ha chiesto il rigetto del ricorso.

5. Con ampia memoria, con allegati, in data 16 febbraio 2021 la difesa di G.L. ha chiesto rigettarsi il ricorso del P.M., per manifesta infondatezza dello stesso.

Diritto

1. Va premesso che il ricorso è tempestivo: infatti l’ordinanza impugnata risulta comunicata il 12 agosto 2020 al P.M., la cui impugnazione è stata depositata nella Cancelleria del Tribunale il 15 settembre 2020, quindi nei termini (a decorrere dal 1° settembre 2020): si applica, infatti, in materia di sequestri la generale disposizione di cui all’art. 585, comma 1, lett. a), cod. proc. pen. in tema di impugnabilità dei provvedimenti emessi in camera di consiglio (come precisato già da Sez. U, n. 5 del 20/04/1994, Iorizzi, Rv. 197701, e costantemente seguito dalle Sezioni semplici, sino alla recente Sez. 3, n. 13737 del 15/11/2018, dep. 2019, Ficarra, Rv. 275190).

2. Nel merito, il ricorso è infondato, per le seguenti ragioni.

2.1. Quanto al primo motivo, con il quale il ricorrente contesta l’affermazione dei giudici di merito secondo cui il reato contestato “evoca necessariamente una condotta commissiva a forma vincolata di per sé incompatibile con una responsabilità a titolo di omissione e, quindi, con il disposto dell’art. 40, comma secondo, c.p., riferibile esclusivamente alle fattispecie a forma libera” (pp. 3-4 dell’ordinanza impugnata), osserva il Collegio quanto segue.
L’ordinanza del Tribunale richiama espressamente il recente precedente di legittimità secondo il quale «In tema di delitto di epidemia colposa, non è configurabile la responsabilità a titolo di omissione in quanto l’art. 438 cod. pen., con la locuzione “mediante la diffusione di germi patogeni”, richiede una condotta commissiva a forma vincolata, incompatibile con il disposto dell’art. 40, comma secondo, cod. pen., riferibile esclusivamente alle fattispecie a forma libera» (Sez. 4, n. 9133 del 12/12/2017, dep. 2018, Giacomelli, Rv. 272261, v. specc. punti nn. 2., 2.1., 2.2. e 2.3., pp. 13-14, del “ritenuto in diritto”).
Non conferente, invece, poiché relativo a fatto del tutto diverso, il precedente di Sez. 1, n. 48014 del 30/10/2019, P., Rv. 277791, richiamato sia nel ricorso che nella memoria difensiva.
In ogni caso, l’ordinanza giustifica la decisione di annullamento con una “doppia motivazione” con la quale il ricorrente non si confronta.
Infatti, dopo avere affermato la inconfigurabilità in diritto (pp. 3-4), il Tribunale afferma che, «In ogni caso, ritiene il Collegio che, anche a voler aderire all’orientamento minoritario della dottrina e della giurisprudenza che qualificano il reato di epidemia colposa nella categoria dei c.d. “reati a mezzo vincolato” e come tali compatibili di essere convertiti, mediante la clausola di equivalenza di cui all’art. 40, secondo comma, c.p., in illeciti omissivi impropri, nel decreto di sequestro preventivo disposto in via d’urgenza il 12.05.2020 dal p.m. ex art. 321, comma 3 bis, c.p.p. e nel successivo decreto di sequestro preventivo disposto dal Gip di Caltagirone, ex art. 321 c.p.p., il 14.05.2020, non vengono dedotti né illustrati gli elementi e le ragioni logico-giuridiche in base ai quali la condotta omissiva ascritta all’indagato sia causalmente collegabile alla successiva diffusione del virus da Covid-19 tra i pazienti ed il personale dalla casa di riposo diretta dal ricorrente […] Il Tribunale ritiene che, in applicazione delle teoria condizionalistica orientata secondo il modello della sussunzione sotto leggi scientifiche, in assenza di qualsivoglia accertamento circa l’eventuale connessione tra l’omissione contestata al ricorrente e la seguente diffusione del virus non sia possibile ravvisare, nel caso de quo, la sussistenza del nesso di causalità tra detta omissione e la diffusione del virus all’interno della casa di riposo. Ed invero, alla stregua del giudizio controfattuale, ipotizzando come realizzata la condotta doverosa ed omessa dall’indagato, non è possibile desumere “con alto grado di credibilità logica o credibilità razionale” che la diffusione/contrazione del virus Covid-19 nei pazienti e nei dipendenti della casa di riposo sarebbe venuta meno. Non è da escludere, infatti, che qualora l’indagato avesse integrato il documento di valutazione dei rischi e valutato il rischio biologico, ex art. 27 D. lgs. 81/2008, la propagazione del virus sarebbe comunque avvenuta per fattori causali alternativi (come ad esempio per la mancata osservanza delle prescrizioni impartite nel DPCM per le case di riposo quali di indossare le mascherine protettive, del distanziamento o dell’isolamento dei pazienti già affetti da covid, ovvero a causa del ritardo negli esiti del tampone). Quanto accertato, dunque, non è sufficiente a far ritenere, in termini di qualificata probabilità richiesta in questa sede, la ricorrenza del fumus della fattispecie di epidemia colposa» (così alle pp. 4-5 del provvedimento impugnato).
Si tratta, con ogni evidenza, di motivazione esistente, non incongrua e non illogica, di per sé non sindacabile in sede di legittimità.
2.2. Quanto, poi, al secondo motivo di impugnazione, secondo il quale il Tribunale non si sarebbe limitato a verificare il fumus boni iuris, ma sarebbe entrato nel merito delle accuse, si rinviene adeguata risposta alla p. 2 dell’ordinanza impugnata, che richiama precedenti di legittimità pertinenti, in linea con il principio di diritto puntualizzato, tra le altre:
da Sez. 26, n. 18183 del 23/11/2017, dep. 2018, Polifroni e altro, Rv. 272927-01, secondo cui «Nella valutazione del “fumus commissi delicti”, quale presupposto del sequestro preventivo, il giudice deve verificare la sussistenza di un concreto quadro indiziario, non potendosi limitare alla semplice verifica astratta della corretta qualificazione giuridica dei fatti prospettati dall’accusa»;
da Sez. 6, n. 49478 del 21/10/2015, P.M. in proc. Macchione, Rv. 265433- 01, secondo cui «Ai fini dell’emissione del sequestro preventivo il giudice deve valutare la sussistenza in concreto del “fumus commissi delicti” attraverso una verifica puntuale e coerente delle risultanze processuali, tenendo nel debito conto le contestazioni difensive sull’esistenza della fattispecie dedotta, all’esito della quale possa sussumere la fattispecie concreta in quella legale e valutare la plausibilità di un giudizio prognostico in merito alla probabile condanna dell’imputato»;
e da Sez. 4, n. 15448 del 14/03/2012, Vecchione Rv. 253508-01, secondo cui «Nel sequestro preventivo la verifica del giudice del riesame, ancorché non debba tradursi nel sindacato sulla concreta fondatezza dell’accusa, deve, tuttavia, accertare la possibilità di sussumere il fatto in una determinata ipotesi di reato; pertanto, ai fini dell’individuazione del “fumus commissi delicti”, non è sufficiente la mera “postulazione” dell’esistenza del reato, da parte del pubblico ministero, in quanto il giudice del riesame nella motivazione dell’ordinanza deve rappresentare in modo puntuale e coerente le concrete risultanze processuali e la situazione emergente dagli elementi forniti dalle parti e dimostrare la congruenza dell’ipotesi di reato prospettata rispetto ai fatti cui si riferisce la misura cautelare reale sottoposta al suo esame» .
Nello stesso senso, tra le numerose altre decisioni di legittimità conformi, si richiamano Sez. 5, n. 49596 del 16/09/2014, Armento, Rv. 261677; Sez. 5, n.28515 del 21/05/2014, Ciampani ed altri, Rv. 260921; Sez. 3, n. 26197 del 05/05/2010, Bressan, Rv. 247694; Sez. 5, n. 37695 del 15/07/2008, Cecchi Gori e altro, Rv. 241632; Sez. 4, n. 10979 del 29/01/2007, Veronese, Rv. 236193.
Occorre, infine, convenire con il difensore dell’indagato G.L., allorquando osserva (alla p. 3 della memoria del 16 febbraio 2021) che il sequestro è stato disposto solo in relazione al reato di epidemia colposa, come risulta testualmente dal contenuto di p. 1 del decreto del G.i.p. di Caltagirone del 14-15 maggio 2020 (v. pp. 197-198 degli atti trasmessi dal P.M . al Tribunale per il riesame).

3. Consegue il rigetto dell’impugnazione.
Nulla per le spese, essendo il ricorrente Parte pubblica.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.
Così deciso il 04/03/2021

fonte https://olympus.uniurb.it/