Abuso della connessione internet Sentenza 15 giugno 2017

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE Licenziamento legittimo

Abuso della connessione internet Sentenza 15 giugno 2017

sentenzaLa Corte di cassazione, con sentenza 14862 del 15 giugno 2017, condivide quanto affermato nella pronuncia della Corte di appello territoriale, la quale ha cambiato il titolo del licenziamento da “giusta causa” a “giustificato motivo soggettivo”.
Infatti il lavoratore non aveva dato prova che la connessione fosse avvenuta per motivi di lavoro ed inoltre deve ritenersi pacifico che – per il numero di 47 connessioni e della durata dell'accesso (45 ore) – l'utilizzo di internet aziendale fosse avvenuto per fini personali non in modo sporadico od occasionale bensì in modo sistematico. E per il fatto che non si è parlato di lesione della condotta illecita all'attività  lavorativa, la fattispecie deve essere ricondotta a licenziamento per giustificato motivo soggettivo.
Nella sentenza n. 14862/2017 è stato sostenuto un principio rilevante: deve ritenersi insussistente una violazione delle regole sulla riservatezza e privacy del dipendente in quanto l'azienda non ha analizzato quali siti siano stati visitati dal dipendente né il tipo di dati scaricati e quindi i dettagli del traffico internet non sono da ricondurre a dati personali in quanto non forniscono alcuna indicazione in merito alla persona e alle sue scelte politiche, religiose, culturali o sessuali.

La Corte territoriale, escluso che la contestazione disciplinare non fosse tempestiva o sufficientemente specifica, anche in relazione alla specificazione della norma violata, ed escluso altresì che il provvedimento fosse stato comunicato oltre il termine di quindici giorni stabilito dalla contrattazione collettiva per la conclusione del procedimento, dovendosi avere riguardo al momento di spedizione dell'atto, osservava, in primo luogo, come la dedotta violazione della normativa sulla riservatezza non potesse ritenersi attinente al caso di specie, posto che la società  si era limitata a verificare l'esistenza di accessi indebiti alla rete ed i relativi tempi di collegamento, senza compiere alcuna analisi dei siti visitati dal dipendente durante la navigazione o della tipologia dei dati scaricati, ne che si vertesse in materia di controllo a distanza della prestazione lavorativa. Osservava, quindi, come i fatti, di cui all'addebito, non risultassero in sé contestati e comunque emergessero dal dettaglio del traffico e, d'altra parte, il ricorrente, pur avendone l'onere, non aveva dimostrato, e prima ancora allegato, che la navigazione fosse avvenuta per motivi di lavoro: si era, pertanto, ad avviso della Corte di appello, di fronte ad un utilizzo della dotazione aziendale per fini personali non sporadica o eccezionale ma, al contrario, sistematica, e ciò in considerazione del numero delle connessioni (47), della durata dell'accesso (complessivamente 45 ore) e della rilevante entità  dei volumi di traffico; ne conseguiva la legittimità  del provvedimento espulsivo adottato dalla società , anche se – notava la Corte – non poteva configurarsi una giusta causa di recesso, in relazione all'assenza di precedenti, al fatto che la condotta illecita non aveva inciso sull'attività  professionale e all'esiguità  del danno sofferto dall'azienda, e la fattispecie richiedeva invece la conversione del recesso, così come intimato, in licenziamento per giustificato motivo soggettivo. Su tali premesse, e in parziale accoglimento del reclamo incidentale della società , il giudice di secondo grado, disposta la conversione, condannava A.I. S.p.A. al pagamento della indennità  sostitutiva del preavviso, oltre accessori di legge, con compensazione per intero delle spese di entrambi i gradi.
Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza il G. con nove motivi, illustrati da memoria; la società  ha resistito con controricorso.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo, deducendo violazione e/o falsa applicazione dell'art. 7 I. n. 300/1970 e degli artt. 26, 28, 70, 75 e 77 del CCNL per il personale dipendente non dirigente delle imprese di assicurazione, in relazione agli artt. 1362 e 1363 c.c., nonché violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1334 e 1335 c.c., il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere erroneamente ritenuto che il termine per l'irrogazione della sanzione fosse stato rispettato dal datore di lavoro con la spedizione della relativa lettera di comunicazione entro i quindici giorni (decorrenti dalla data di presentazione delle difese scritte del lavoratore) fissati dalla contrattazione collettiva, nonostante che il tenore delle norme e la natura di atto ricettizio del licenziamento richiedessero che, entro tale termine, l'atto fosse anche portato a conoscenza del destinatario.
Con il secondo motivo, deducendo illegittimità  per errore in procedendo (art. 360 n. 4 c.p.c.), con riguardo all'onere di motivazione ex art. 132 c.p.c. e violazione e/o falsa applicazione dell'art. 111 della Costituzione, il ricorrente si duole che la Corte non abbia fornito, sulla questione di cui al primo motivo, una motivazione compiuta.
Con il terzo motivo, deducendo la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 7 I. n. 300/1970, 2104 c.c., 28 e 100 CCNL di riferimento, anche in relazione agli artt. 1362 e 1363 c.c., nonché violazione dell'art. 24 Cost., il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere, ascrivendo la condotta addebitata a violazione delle elementari regole del vivere comune, ritenuto irrilevante il fatto che egli – come emerso nel corso del giudizio – non avesse avuto conoscenza preventiva (come non l'aveva avuta neppure in sede di procedimento disciplinare, con pregiudizio del diritto di difesa) del regolamento sull'utilizzo degli apparati mobili aziendali del luglio 2011, nonostante che tale regolamento fosse da considerarsi come il documento fondamentale per l'identificazione dei comportamenti ammissibili o meno in materia e che, proprio in ragione di tale importanza, la società  lo avesse espressamente indicato nella lettera di contestazione tra le disposizioni che definivano la valenza disciplinare della condotta.
Con il quarto motivo, denunciando il vizio di cui all'art. 360 n. 5, il ricorrente si duole che la Corte abbia omesso di prendere in esame il fatto della mancata consegna (e, quindi, della mancata conoscenza) del regolamento del luglio 2011 sull'utilizzo degli apparati mobili aziendali.
Con il quinto motivo, deducendo la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 4, 7, 10, 11, 13, 23 e 123 del decreto legislativo n. 196/2003 (Codice in materia di protezione dei dati personali), delle Direttive n. 95/46/CE e n. 2002/58/CE, delle “Linee guida dell'Autorità  Garante per la protezione dei dati personali” assunte con deliberazione n. 13 in data 1/3/2017 e dell'art. 25 bis del CCNL di riferimento, nonché la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 4 I. n. 300/1970 in relazione all'art. 114 d.lgs. n. 196/2003, il ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui il giudice del reclamo ha ritenuto non attinente al caso di specie la normativa sulla tutela della riservatezza, e ciò sul rilievo che il datore non aveva analizzato quali siti il dipendente avesse visitato durante la navigazione in internet, né di quale tipo fossero i dati che aveva scaricato, né se li avesse salvati sul pc, posto che, contrariamente a quanto così ritenuto, anche i dati relativi alla data, all'ora, alla durata e al volume del traffico, i soli riportati nella lettera di contestazione, erano da considerarsi ad ogni effetto “dati personali”, con ogni conseguenza circa le modalità  di trattamento e di utilizzo; ed inoltre nella parte in cui ha ritenuto non conferente il richiamo all'art. 4 I. n. 300/1970, sul rilievo della estraneità  della concreta fattispecie al tema del controllo a distanza della prestazione lavorativa, peraltro senza tener conto della disciplina dettata dall'Autorità  Garante per la protezione dei dati personali ed espressamente recepita dal CCNL di settore.
Con il sesto motivo, deducendo violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2119 e 2106 c.c., 7 I. n. 300/1970, 30 comma 3 I. n. 183/2010, 3 I. n. 604/1966, in relazione agli art. 1453 e 1455 c.c., agli artt. 26, 75 e 76 CCNL di riferimento e agli artt. 1362 e 1363 c.c., nonché violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., il ricorrente censura la sentenza impugnata per non avere il giudice del reclamo, nel ritenere dimostrato l'illecito disciplinare, compiuto il pur necessario accertamento dell'elemento soggettivo (oltre che dei fatti oggettivi) e, in particolare, per non avere considerato – ciò che lo avrebbe portato a escludere la sussistenza di tale elemento – che il lavoratore non aveva ricevuto comunicazione del regolamento aziendale del luglio 2011 e che, pertanto, non era stato preventivamente edotto dal proprio datore di lavoro in ordine alle modalità  e ai limiti cui si sarebbe dovuto attenere nell'utilizzo della strumentazione affidatagli. Con il settimo motivo, denunciando il vizio di motivazione, il ricorrente si duole che la Corte non abbia preso in esame diversi fatti idonei a smentire, o comunque a mitigare, la reale portata dell'addebito e segnatamente il difetto di indicazioni circa eventuali restrizioni nell'utilizzo della chiavetta per la navigazione in internet, la mancata comunicazione del regolamento del luglio 2011, la sostanziale insussistenza di un danno di natura economica per la società  e il carattere marginale dei fatti contestati e sanzionati rispetto ad un'attività  lavorativa sempre esercitata con serietà .
Con l'ottavo motivo, deducendo violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2119 e 2106 c.c., 7 I. n. 300/1970, 30 comma 3 I. n. 183/2010, 3 I. n. 604/1966, in relazione all'art. 1455 c.c., agli artt. 26, 75 e 76 CCNL di riferimento e agli artt. 1362 e 1363 c.c., nonché violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., il ricorrente censura la sentenza per non avere valutato che la sanzione (anche nella sua conversione in licenziamento per giustificato motivo soggettivo) risultava del tutto sproporzionata rispetto ai fatti contestati, alla stregua degli elementi già  posti in rilievo nei precedenti motivi sesto e settimo.
Con il nono motivo, infine, il ricorrente, denunciando il vizio di motivazione e la violazione dell'art. 112 (art. 360 n. 3), si duole, ancora con riferimento al giudizio di proporzionalità , dell'omesso esame dei fatti decisivi riportati nei precedenti motivi settimo e ottavo.
Il primo e il secondo motivo di ricorso possono essere esaminati congiuntamente, in quanto entrambi attengono, se pure sotto i differenti angoli visuali di vizi distinti, al capo di pronuncia relativo alla tempestività , rispetto alle previsioni collettive, dell'adozione e comunicazione del provvedimento disciplinare da parte del datore di lavoro.
I motivi in esame risultano infondati.
In primo luogo, è da ritenersi corretta la lettura che il giudice di merito ha dato dell'art. 28 CCNL per il personale dipendente non dirigente delle imprese di assicurazione, là  dove è stabilito (co. 2″°) che “qualora decida di adottare un provvedimento, l'Impresa lo comunicherà  all'interessato entro i successivi 15 giorni oppure entro 15 giorni dal ricevimento delle eventuali difese scritte presentate dal lavoratore”, considerando assolto l'onere così posto a carico del datore di lavoro, ai fini della ritualità  del procedimento di applicazione della sanzione, con la mera spedizione della lettera di comunicazione del provvedimento. La previsione collettiva tende, infatti, manifestamente a contemperare l'interesse, che è comune ad entrambe le parti, ad una pronta e sollecita definizione del procedimento, quale episodio che si inscrive patologicamente nell'esecuzione del rapporto, con l'interesse ad una vera e adeguata ponderazione della inevitabilità  della sanzione e del contenuto giustificativo delle difese svolte dal dipendente: interesse che appare anch'esso comune ad entrambe le parti del rapporto, essendo chiara la necessità , anche per il datore di lavoro, di uniformare la propria azione, nel più generale contesto delle relazioni aziendali, ai canoni di correttezza e buona fede (e, per la ipotesi in cui ricorrano elementi gravi e obiettivamente rilevanti, idonei a comportare l'adozione di un provvedimento espulsivo, anche di vagliare gli effetti della perdita, che l'adozione di tale provvedimento determinerebbe, di un'eventuale risorsa di specifica e non sostituibile importanza professionale ai fini del conseguimento delle finalità  dell'impresa); ma che è di particolare rilievo per il lavoratore, che deve poter contare su di una valutazione concreta e approfondita sia dei presupposti fattuali di possibile rilievo disciplinare, sia (nel caso di presentazione di difese scritte) su di un esame attento degli elementi portati a propria discolpa.
Di tale preminente rilievo è conferma nel successivo comma terzo dell'art. 28, là  dove è previsto che il termine di quindici giorni può essere prorogato di altri quindici “per esigenze derivanti da difficoltà  nella fase di valutazione delle difese scritte del lavoratore”.
Su tali premesse non può condividersi un'interpretazione della norma che dia assorbente rilievo, rispetto alla comune volontà  delle parti di definire una disciplina che costituisca punto di incontro e di bilanciamento, al dato letterale imperniato sul verbo “comunicherà “, interpretazione la cui naturale conseguenza sarebbe solo quella di comprimere la durata del termine sulla base del computo di un rischio “tecnico” connesso ai tempi di esecuzione dell'attività  partecipativa, e, in quanto tale, non soggetto al controllo del mittente, ove essa, come d'ordinario, venga affidata al servizio postale, nella carente idoneità  di altri mezzi (come il telefax) a garantire la certezza della conoscenza e in difetto dell'obbligo del dipendente di dotarsi un indirizzo di posta elettronica certificata; mentre il destinatario non potrebbe dolersi di una ricezione che, superando in misura non apprezzabile il termine di quindici giorni fissato dalla norma, vedrebbe comunque assicurata, sul piano sostanziale e della effettività , la tutela del rilevante interesse di cui è portatore.
Non rileva, d'altra parte, per una diversa ricostruzione della fattispecie, la natura ricettizia del licenziamento, che attiene al momento in cui l'atto acquista efficacia, ponendosi invece, con la censura espressa nel primo motivo, la diversa questione se il termine di quindici giorni, stabilito dalla contrattazione collettiva, possa dirsi rispettato dal datore di lavoro mittente con la semplice spedizione (come esattamente ritenuto dalla Corte territoriale, per tutto quanto sopra osservato) ovvero richieda anche il compimento del procedimento di comunicazione.
E', poi, da escludere che la motivazione adottata dal giudice di merito nel risolvere la questione sia inesistente, posto che la sentenza contiene una parte, pur nella sua brevità , specificamente dedicata ad essa, né che sia apparente, potendo correttamente ritenersi tale la motivazione che non permetta di ricostruire la ragione decisoria posta alla base della decisione assunta, mentre, nella specie, la Corte, lungi dall'asserire il mero fatto di un'avvenuta osservanza del termine, ha chiaramente affermato, nell'alveo concettuale della scissione tra spedizione e ricezione, l'idoneità  e sufficienza del primo elemento dicotomico.
Il terzo motivo è infondato.
Al riguardo, si osserva come il fatto che il ricorrente non fosse stato posto nelle condizioni di conoscere tempestivamente le disposizioni sull'utilizzo degli apparati mobili aziendali, contenute nel regolamento in data 1 luglio 2011, non attiene al requisito di specificità  che deve possedere la contestazione disciplinare, operando sul diverso piano dell'ascrizione di una condotta di cui si assume che non potesse essere nota la illiceità .
Se, poi, la censura, come sembra doversi desumere da una complessiva lettura del motivo, ha riguardo alla diversa disposizione di cui al primo comma dell'art. 7 I. n. 300/1970, allora è da ritenere che essa – al pari di quella relativa alla mancata consegna del regolamento in sede di procedimento disciplinare, con pregiudizio del diritto di difesa – non sia tale da poter rimuovere criticamente la ragione decisoria posta dalla Corte territoriale a sostegno delle proprie conclusioni e cioè l'accertata contrarietà  della condotta, riassunta dalla Corte in un ampio e indebito utilizzo dello strumento aziendale per finalità  estranee all'attività  lavorativa, alle “elementari regole del vivere comune” e al contenuto precettivo tanto dell'art. 2104 c.c. come dell'art. 100 CCNL di settore, entrambi esplicitamente richiamati nella lettera di contestazione.
E' infatti consolidato l'orientamento di legittimità , per il quale “l'onere di pubblicità  del cosiddetto codice disciplinare, previsto dall'art. 7, primo comma, della legge n. 300 del 1970, si applica al licenziamento disciplinare soltanto nei limiti in cui questo sia stato intimato per una delle specifiche ipotesi di comportamento illecito vietate e sanzionate con il provvedimento espulsivo da norme della contrattazione collettiva o da quelle validamente poste dal datore di lavoro – entrambe soggette all'obbligo della pubblicità  per l'esigenza di tutelare il lavoratore contro il rischio di incorrere nel licenziamento per fatti da lui non preventivamente conosciuti come mancanze – e non anche quando, senza avvalersi di una di queste specifiche ipotesi, il datore di lavoro contesti un comportamento che, secondo quanto accertato in fatto dal giudice del merito, integri una violazione di una norma penale, o sia manifestamente contrario all'etica comune, ovvero concreti un grave o comunque notevole inadempimento dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro, quali sono gli obblighi di diligenza e di fedeltà  prescritti dagli artt. 2104 e 2105 c.c., poiché in tali casi il potere di licenziamento deriva direttamente dalla legge (art. 2119 c.c. e artt. 1 e 3 della legge n. 604 del 1966): Cass. n. 14615/2000. Conformi, fra le altre: n. 6134/2001; n. 23120/2004.
E' stato, inoltre, ripetutamente affermato nella giurisprudenza di questa Corte che l'obbligo di diligenza previsto dall'art. 2104 c.c., costituendo una specificazione del principio generale di cui all'art. 1176, comma 2″°, c.c., deve essere valutato con ampio e complessivo riguardo alla natura dell'attività  esercitata, in particolare rilevandosi, a questo proposito, che il contenuto dell'obbligo si sostanzia non solo nell'esecuzione della prestazione lavorativa secondo la particolare natura di essa (diligenza in senso tecnico) ma anche nell'esecuzione di quei comportamenti accessori che si rendano necessari in relazione all'interesse del datore di lavoro ad un'utile prestazione (cfr., in tal senso, già  Cass. n. 3845/1992; cfr., più di recente, fra le molte: n. 12769/2000 e n. 7398/2010).
Il quarto motivo è, per un verso, inammissibile, là  dove lamenta, in relazione all'art. 360 n. 5, l'omesso esame del fatto decisivo per il giudizio costituito dalla mancata consegna, e quindi dalla mancata conoscenza, da parte del lavoratore, del regolamento aziendale sull'utilizzo degli apparti mobili, e, per altro verso, infondato, là  dove, pur non esprimendola nella rubrica, muove alla sentenza impugnata una censura di motivazione apparente (se non addirittura inesistente): (a) inammissibile, in quanto della circostanza dedotta come omessa nella ricostruzione fattuale del giudice del reclamo non si dimostra la valenza “decisiva” (e cioè l'idoneità  a determinare un esito diverso della decisione), in rapporto alla ratio su cui si fonda la pronuncia, e comunque essa, diversamente da quanto allegato, ha formato oggetto di specifico esame da parte del giudice (cfr. sentenza, p. 8, prima parte), che ne ha escluso la rilevanza nella fattispecie concreta, in coerenza, del resto, con le proprie valutazioni; (b) infondato, per le stesse considerazioni già  svolte a proposito del secondo motivo, avendo la Corte fornito una motivazione sintetica ma del tutto adeguata a far comprendere le essenziali ragioni a sostegno della conclusioni raggiunte.
Il quinto motivo, per ciò che attiene alla violazione della normativa sulla tutela della riservatezza, è inammissibile, in quanto non censura specificamente l'affermazione centrale del ragionamento della Corte territoriale, per la quale la possibilità  di configurare, nella specie, una tale violazione è da ritenersi esclusa, sul rilievo che “l'azienda non ha analizzato quali siti” il G. “ha visitato durante la navigazione in internet, né la tipologia di dati che ha scaricato, né infine se li ha salvati sul p.c.” (p. 9); e comunque è infondato, atteso che i dettagli del traffico, quali esclusivamente indicati nella lettera di contestazione disciplinare (data, ora, durata della connessione e importo del traffico), secondo l'accertamento compiuto sul punto dal giudice del merito, non costituiscono dati personali, non comportando alcuna indicazione di elementi riferibili alla persona dell'utente e di sue scelte o attitudini politiche, religiose, culturali, sessuali, rimanendo confinati in una sfera estrinseca e quantitativa che è di per sé sovrapponibile, senza alcuna capacità  di individuazione, ad un numero indistinto di utenti della rete.
Il motivo risulta, poi, palesemente inammissibile, con riferimento a quella parte della sentenza in cui la Corte ha dichiarato inconferente il richiamo all'art. 4 I. n. 300/1970 sul rilievo che nella specie non si verte “in materia di controllo a distanza della prestazione lavorativa” (cfr. ancora p. 9), risolvendosi la censura in una pura manifestazione di dissenso rispetto alla pronuncia del giudice, non sostenuta da alcun riferimento alla natura, all'oggetto e alle finalità  del c.d. controllo a distanza del lavoratore e dalla positiva dimostrazione dell'esistenza, negata dalla decisione impugnata, dei presupposti per l'applicabilità  della relativa disciplina.
Si deve, in ogni caso, precisare che è controllo a distanza, ai sensi dell'art. 4 I. n. 300 del 1970, l'attività  che abbia ad oggetto la prestazione lavorativa e il suo esatto adempimento, restando esclusa dal campo di applicazione della norma quella che sia volta a individuare la realizzazione di comportamenti illeciti da parte del dipendente, idonei a ledere il patrimonio aziendale sotto il profilo della sua integrità  e del regolare funzionamento e della sicurezza degli impianti (cfr. da ultimo Cass. n. 10955/2015).
I motivi sesto, settimo, ottavo e nono possono essere esaminati congiuntamente, in quanto, sulla base della riproposizione di rilievi già  formulati nei motivi precedenti, tendono a censurare l'accertamento di fatto compiuto dal giudice di merito, sotto i profili dell'elemento soggettivo e della proporzionalità  tra fatto e sanzione.
I motivi in esame sono infondati.
Ed invero, nel presupposto (che resiste, come si è notato, alle censure mosse con i motivi terzo e quarto) della ininfluenza della mancata consegna del regolamento aziendale e della essenziale rilevanza, al contrario, di un ampio e indebito utilizzo dello strumento, contrario alle regole elementari del vivere comune, la Corte territoriale ha proceduto ad un'articolata ricognizione della fattispecie, prendendo in esame l'insieme complessivo delle circostanze del caso concreto, anche di natura soggettiva, conformemente a consolidato orientamento di questa Corte (cfr., fra le molte, Cass. n. 7543/2006), e, in tal modo, sottraendosi alle critiche svolte con i motivi in esame.
In particolare, il giudice di merito ha posto in rilievo come ci si trovi di fronte, nella specie, “ad un utilizzo della dotazione aziendale per fini personali non sporadica e/o eccezionale, bensì sistematica in considerazione della frequenza (complessivamente 27 connessioni), della durata dell'accesso (complessivamente 45 ore) e dello scambio di dati di traffico (migliaia di kbyte)” e come tale condotta integri con evidenza un utilizzo indebito dello strumento aziendale non solo “reiterato” ma anche, e di conseguenza, “intenzionale” (pp. 11-12).
Sulla base di tali elementi, come della loro correlazione al “ruolo” di responsabilità  che il G. ricopriva in azienda (“di controllore della qualità  dei sinistri sul territorio nazionale”: cfr. ancora pp. 11-12), la Corte è infine pervenuta a ritenere legittima l'adozione di un provvedimento espulsivo, pur dando atto di una serie di elementi idonei a privare di un persuasivo fondamento la ritenuta giusta causa di recesso.
Si tratta di un insieme unitario di accertamenti di fatto che rientrano nella competenza esclusiva del giudice di merito e rispetto ai quali l'insieme di circostanze, specificate nel sesto e nel settimo motivo per essere ulteriormente riprese in quelli successivi, non si offrono come “decisive” al fine di una diversa ricostruzione della fattispecie.
Il ricorso deve conclusivamente essere respinto.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità , liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso spese generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà  atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.

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